Storia di corpi imperfetti

Donna davanti al sole – Mirò

I corpi non sono mai semplice esperienza fisica dell’esistenza umana, ma rappresentazioni sociali che veicolano significati culturali, credenze, desideri e contraddizioni di un dato momento storico.

Ogni cultura ha stabilito nel tempo un rimodellamento del corpo, attraverso accorgimenti estetici che portavano di solito all’accentuazione o alla riduzione di qualche aspetto dell’anatomia o di qualche espressione naturale del corpo. Tuttavia, secondo molti studi di matrice socio-antropologica, il corpo femminile, ben più di quello maschile, risulta esposto alle molteplici manipolazioni dirette a modificarne forma e aspetto e, contemporaneamente, al rischio di essere sottoposto al giudizio pubblico e a momenti di criticità: conquistare un corpo accettabile può essere estremamente difficile e richiedere alle donne fatiche importanti, ma necessarie, in quanto il corpo è il metro di valutazione fondamentale del valore di una donna. La cura del proprio corpo richiede quindi un’attenzione meticolosa, in quanto la bellezza fisica è un attributo irrinunciabile della propria personalità (Testoni, 2001).

Ma da dove nascerebbe la centralizzazione della donna sull’esperienza corporea?

Nel pensiero occidentale, fin dall’antichità è rintracciabile il dualismo maschile – femminile, caratteristico della differenziazione di genere (vedi Aristotele, per esempio); esso assume un ruolo fondamentale nella comprensione della storia del corpo femminile e delle modificazioni che ha attraversato nel corso del tempo. Le donne, oltre a possedere un corpo, sono state da sempre identificate con il corpo stesso, concepito come dimensione esistenziale tipicamente femminile, dalla mitologia e dal pensiero scientifico, filosofico e religioso. Pertanto, la bellezza e quindi la definizione dei canoni estetici desiderabili, sono stati sempre riferiti soprattutto al genere femminile: l’uomo ha un corpo, la donna è corpo.

Fin dalle più antiche civiltà, si è assistito alla definizione del genere maschile come homo faber, titolare, quindi, della fabbricazione, della produzione, della razionalità e del lavoro e della donna, invece, essenzialmente come corpo. L’uomo si è definito così depositario dell’azione (ossia la componente strumentale del corpo), mentre la donna del corpo in sé e, di conseguenza, di tutte le strategie per migliorarne l’estetica.

Tuttavia, gli artifici adottati dalle donne per aderire all’ideale estetico della magrezza sono stati sovente degli autentici supplizi, accettati e perpetrati dalle comunità femminili,  per aderire il più possibile al modello imperante di femminilità. Si pensi a questo proposito, alla moda del corsetto, diffusasi nella seconda metà del XIX secolo,  (Shorter, 1984). Il corsetto, realizzato con inflessibili stecche di acciaio o di osso di balena, rimodellava la figura in un atteggiamento regale e un movimento più femminilizzato, ma contemporaneamente rese estremamente difficile ogni piegamento o inspirazione profonda.

Spostandoci nella cultura orientale, nel periodo di decadenza della classe aristocratica, si diffuse l’usanza della fasciatura dei piedi al fine di renderli il più possibile minuscoli, simbolo invidiabile di lusso e raffinatezza. Questa dolorosa forma di mutilazione corporea riduceva la capacità della donna di muoversi e di mantenere l’equilibrio, rendeva la sua figura più fragile e l’andatura più vacillante, ma contemporaneamente la trasformava in una incomparabile icona di femminilità e seduzione, secondo i canoni estetici del tempo.

Oggi, la stessa ricerca estenuante della magrezza, modello estetico imperante nelle società attuali, e di tutti i sacrifici necessari per ottenere questo risultato (il  business della Diet Industry, la chirurgia estetica), fino all’allarmante fenomeno dei Disturbi del Comportamento Alimentare, reale epidemia sociale, può essere letta in questa prospettiva.

Secondo alcuni autori, infatti, (Bordo, 1997) i disturbi alimentari costituiscono l’espressione estrema del mutamento radicale delle aspettative sociali nei confronti delle donne, che si è manifestato a partire dagli anni Sessanta (in termini di emancipazione,  competitività e l’indipendenza, ossia un sistema di valori fortemente in conflitto con la configurazione tradizionale del ruolo femminile). E proprio in questi anni inizia a diffondersi, nelle società industrializzate e a livello di massa, l’ideale estetico della magrezza: il corpo magro e asciutto, con la conseguente perdita delle forme tipicamente femminili, può essere interpretato come simbolico superamento della femminilità tradizionale e domestica, quindi, come una forma di emancipazione femminile. Pertanto, la magrezza oggi non ha solo il significato di bellezza, ma incarna gli ideali culturali dominanti delle nostre società e identifica le persone “che contano” ossia quelle caratterizzate da competitività, indipendenza, successo e affermazione sociale (Bastone, 2009).

Qualunque sia il modello estetico che le diverse culture hanno definito come simbolo di bellezza, il principio generale che governa l’identità femminile non è cambiato: il corpo è il terreno principale di competizione tra le donne e l’immagine esteriore è la misura femminile della desiderabilità e del valore. La cultura ha insegnato alle donne a essere corpi insicuri e difettuali, perennemente alla ricerca di segni di imperfezione, impegnati in una lotta costante verso una perfettibilità illimitata (Dalla Ragione, 2012).

Bibliografia

BASTONE A., (2009), La relazione educativa nella cura dei disturbi alimentari. Il ruolo di genitori, insegnanti, educatori e massmedia, Edizioni La Rondine

BORDO S. (1997), Il peso del corpo, Feltrinelli, Milano

DALLA RAGIONE L. (2012), I Disturbi del Comportamento Alimentare: un’epidemia della modernità, in Il coraggio di guardare, Dipartimento della gioventù

TESTONI I. (2001), Il dio cannibale: anoressia e culture del corpo in occidente, UTET, Torino

SHORTER E. (1984), Storia del corpo femminile, Feltrinelli, Milano

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