Ebbene, ho visto il film di Cenerentola. Avevo visto anche il film animazione di molto tempo fa. E non posso fare altro che confermare la mia predilezione per le fiabe nella loro versione tradizionale e dispiacermi delle mancanze riscontrabili nelle versioni cinematografiche *.
La fiaba di Cenerentola, tra le più note in assoluto, presente in contesti culturali molto diversi, è una fiaba che parla di molte cose, come è stato ben esplicitato da esperti del settore (vedi Bettelheim a questo proposito). È una fiaba che parla dell’adolescenza e delle fatiche della crescita, delle prove per raggiungere l’autonomia, delle rivalità fraterne, dell’effimero ruolo dell’immagine esteriore per potersi affermare nella vita.
Ma è anche una fiaba che parla del legame indissolubile con la figura materna, anche quando essa non c’è più. È questo è il punto più debole delle versioni cinematografiche (ispirate alla versione di Perrault).
La fiaba originale dei Grimm inizia proprio con il racconto della morte dell’amata madre che, nel comunicare le sue ultime parole alla figlia, la vincola in una drammatica eredità comportamentale: “Bimba sia, sii sempre docile e buona, così il buon Dio ti aiuterà e io ti guarderò dal Cielo e ti sarò vicina”. Questo mandato nel film risuona come un’irritante cantilena – “Sii gentile” – che Cenerentola rammenta ogni qual volta il tremendo sodalizio femminile che si impone in casa propria la obbliga a ridursi ad un’insignificante servetta.
Detto questo, l’eco della madre morte appare ingiusto e castrante: con un semplice messaggio ha vincolato la figlia ad un comportamento molto disfunzionale.
In psicologia si parla a questo proposito di vincolo di lealtà nei confronti della generazione precedente: tutti i genitori trasmettono ai figli compiti e aspettative che hanno l’importante funzione di aiutarli a dirigere la loro vita, a sviluppare un senso di appartenenza e creare una matrice condivisa di esperienze e valori a cui attingere per la costruzione della propria vita. Ma le aspettative possono diventare un ingombrante vincolo, capace di bloccare lo sviluppo dell’individuo. Insomma, i genitori dovrebbero mantenere un onesto equilibrio tra ciò che danno e ciò che prendono.
È qui che la fiaba rivela la sua funzione formativa: la madre perduta non si limita a trasmettere un mandato, ma ricompare più volte nella storia come aiutante magico per risolvere i problemi della figlia. Cenerentola, infatti, per partecipare dignitosamente ai balli del principe (nella fiaba originale sono 3), corre a piangere sulla tomba della madre che magicamente farà comparire un abito più bello dell’altro. Ecco ripristinato l’equilibrio tra sforzo e ricompensa, tra il dare e il ricevere.
Anche la revisione della figura paterna è curiosa: nella fiaba originale è un padre periferico, incapace di cogliere il dramma della figlia. Nel film hanno preferito farlo morire… forse sarebbe difficile da digerire oggi un modello di quel tipo, in tempi di revisione dell’identità maschile, androginato, mammi, etc…
E infine, il finale. La fiaba originale è certamente più cruda e spietata, farebbe storcere il naso a molti genitori, dato che le colpevoli vengono punite con un contrappasso degno della loro crudeltà. Nel film Cenerentola chiude il rapporto con la matrigna sussurrando semplicemente “ti perdono”. Peccato che ai bambini (ma anche a noi grandi) piaccia sapere che le colpe vengono punite. Almeno nelle fiabe.
*Per ogni approfondimento sul tema: Antonella Bastone (2021), Le fiabe raccontate agli adulti. Storie di ieri e di oggi per la formazione”, CELID Edizioni