Pedagogista. Formazione, Orientamento e Ricerca – Torino. Docente a contratto di discipline pedagogiche presso l'Università di Torino, del Piemonte Orientale e di Genova
Autore: antonellabastone
Pedagogista, laureata in Scienze dell'Educazione e in Formazione dei Formatori, svolgo attività di formazione, consulenza, orientamento e ricerca in campo psicologico, educativo e sociale, presso enti pubblici e privati. Sono docente a contratto di discipline pedagogiche presso l'Università di Torino, del Piemonte Orientale e di Genova .
Che i bambini sembrino provenire da un altro pianeta è impressione comune per gli adulti che hanno esperienza diretta con l’infanzia, in particolare con la prima infanzia: un’insaziabile curiosità conoscitiva, la necessaria intraprendenza esplorativa, un’intelligenza unica e formidabile, il ricorso al pensiero magico, l’integrazione tra fantasia e pensiero razionale, rendono il bambino, soprattutto nei primi 6 anni di vita, un soggetto conoscitivo atipico e spesso sottovalutato agli occhi degli adulti. Continua a leggere L’Alterità del bambino: un territorio incompreso spiegato dai grandi capolavori della letteratura dell’infanzia
L’atto del narrare storie è intrinseco alla natura umana, in quanto correlato a specifiche strutture cerebrali: la biologia ha selezionato, favorito e trasmesso le abilità narrative in quanto capaci di produrre un archivio mentale di situazioni complesse capaci di migliorare le possibilità di sopravvivenza e di adattamento dell’essere umano. La narrazione è infatti una forma di organizzazione psichica universale, disponibile a tutti gli esseri umani indipendentemente dalla cultura di appartenenza, che consente di dare senso all’esperienza vissuta (Bastone, 2021).
Ma allora perché immaginare distopie? Quali bisogni vengono appagati dall’immaginare futuri catastrofici, in cui l’umanità confluisce, senza ulteriori speranze, in una conclusione inesorabile della sua storia naturale e sociale? Per quale motivo la mente narrante sente la necessità di ipotizzare un ribaltamento della naturale propensione ottimistica del lieto fine? Continua a leggere Distopie formative: immaginare la fine del mondo per esercitare la produzione di soluzioni possibili
E se il fine ultimo della formazione fosse l’immaturità, intesa come “condizione dell’esistenza non lontana dalla saggezza”* capace di disporci all’apprendimento continuo, alla continua scoperta di sé e del mondo?
Per molto tempo si è parlato della maturità come fine ultimo di ogni percorso educativo e formativo, ossia del raggiungimento di una condizione di equilibrio, stabilità e compimento, caratteristico dell’età adulta. Tuttavia, oggi è ampiamente superata l’idea di adultità come fase conclusiva del proprio processo di formazione individuale. Al contrario, la formazione dell’essere umano avviene nel corso dell’intero ciclo di vita, senza consolidamenti definitivi**. Ancor di più oggi, se si pensa alla velocità con cui evolvono le società complesse, ogni fase della vita è continuamente esposta a sollecitazioni formative e soprattutto è aperta al cambiamento. L’uomo moderno è, forse ancor più che in passato, Homo viator (Gabriel Marcel), essere incompiuto, sempre in cammino, alla ricerca della sua realizzazione. E’ come l’eroe fiabesco, continuamente alla ricerca di qualcosa, impegnato in un viaggio reale o immaginario, comunque metafora della natura dinamica dell’esistenza**.
Allora forse, è obiettivo prioritario il mantenimento di quel “bambino interiore” di cui tanti poeti e artisti hanno parlato, non come rifiuto della maturità, ma come capacità di “cogliere le potenzialità rigeneratrici di alcuni tratti psicologici infantili”* come la curiosità, l’immaginazione, l’apertura mentale, il movimento, il desiderio di sperimentare e di apprendere, la creatività, il gioco, l’avventura, l’esplorazione, l’energia, la sincerità, il bisogno di amare. Tutte queste componenti costituiscono certamente una forma di saggezza.
La motivazione alla custodia dell’immaturità, potrebbe essere molto semplice: “ciò che è maturo ha smesso di crescere”*.
C’è una metafora, tratta dal libro La Storia Infinita di Michael Ende che evoca, a mio avviso, questo bisogno di coltivare l’immaturità. In conclusione della sua avventura in Fantàsia, Bastiano, ormai logorato dal potere di realizzare ogni desiderio e avendo ormai raggiunto tutto ciò che poteva desiderare (bellezza, coraggio, forza, carisma, saggezza), ha perso quasi del tutto ogni memoria del suo passato. Raggiunge un curioso luogo chiamato “La casa che muta”: inizialmente simile a una zucca, questa bizzarra abitazione cambia aspetto continuamente, generando in vari punti forme e protuberanze che diventano comignoli, balconi e altri elementi, mentre nel frattempo altri scompaiono. Una casa che è metafora di un processo di gestazione. La finalità del luogo è immediatamente chiara, perché in sottofondo una voce canta: “Gran signore, sii bambino! Torna a essere piccino!” .
La casa è abitata da Donna aiuola, sul cui corpo crescono foglie, frutti e fiori, di cui Bastiano si nutre con desiderio e soddisfazione, brillante metafora della vita di cui il bambino si appropria con ingordigia.
La casa che muta si chiama così non solo perchè cambia aspetto, ma soprattutto perchè cambia chi ci abita: infatti, accogliendo Bastiano, la casa, che è dotata di una sua volontà, produce una stanza con mobili enormi, perché lo scopo è far sentire Bastiano piccolo, un ritorno alle origini necessario per proseguire il suo percorso di formazione.
Se dico Astrid Lindgren, probabilmente a buona parte dei lettori verrà in mente una ragazzina ribelle e scalmanata, di nome Pippi, dalla chioma rossa come il suo temperamento, che ha accompagnato l’infanzia di molti di noi con le sue avventure strepitose e avvincenti. E in effetti il romanzo di Pippi Calzelunghe, pubblicato per la prima volta nel 1945, da un lato suscitò perplessità e disapprovazione da parte del mondo adulto, preoccupato che una bambina intraprendente e disubbidiente potesse diventare un modello d’identificazione per i propri figli, dall’altro venne accolta con incredibile entusiasmo proprio dal pubblico più giovane. Probabilmente Pippi ripercorre, in versione femminile, la stessa reazione che un altro monello del secolo precedente provocò nel pubblico grande e piccolo…Parliamo di Pinocchio, ovviamente: fino a quel momento la letteratura per l’infanzia era imbrigliata in obiettivi pedagogici moralistici e didascalici (vedi per esempio Giannetto di Parravicini) e abbondava di bambini-modello ubbidienti e giudiziosi, insomma, idealmente perfetti… Pinocchio, come anche Gian Burrasca, prorompono con energia nelle pagine per bambini, incarnando il monello anti-eroe, trasgressivo e ribelle, pronto a superare il limite imposto dall’adulto o incapace di autocontrollo. È per questo che personaggi come Pinocchio e la stessa Pippi piacciono tanto al pubblico infantile: perché, sì, i bambini hanno bisogno anche di personaggi “imperfetti” che consentano di dare sfogo agli intimi desideri di ribellione e disubbidienza, almeno nell’identificazione simbolica fornita dalla narrazione. Pippi in particolare incarna esperienze di leggerezza, spensieratezza, spontaneità, ma è anche un modello di indipendenza, coraggio e libertà femminili. Non è l’unico personaggio della Lindgren a evocare queste esigenze, si pensi per esempio a Ronja la figlia del brigante, di cui ho già scritto in un precedente articolo.
Tuttavia,
la produzione della Lindgren è ricchissima, anche di opere meno
note, come alcune
fiabe tradizionali che ho scoperto solo recentemente, raccolte da
Iperborea con il titolo “L’uccellino
rosso”. Fiabe da
cui emerge un’infanzia perduta e desolata di bambini costretti alla
miseria, all’indifferenza e alla solitudine. L’uccellino
rosso, per esempio,
conduce due fratellini orfani e poverissimi in un mondo parallelo
incantato, di cui non possiamo stabilire se sogno o realtà,
contenente tutto ciò di cui la loro breve e grigia vita è priva: il
tempo del gioco e della spensieratezza, le amicizie, una grande mamma
buona, madre di tutti i bambini persi e dimenticati, che offre loro
calore, accoglienza e cibo d’amore. Ed è lì che preferiscono
restare, chiudendo per sempre il protone che li separa dalla vita
reale, ahimè, amara e desolata. In Suona
il mio tiglio, canta il mio usignolo?,
Malin, la bambina protagonista, è costretta a vivere in un tetro e
cupo ospizio di anziani, dopo la morte dei genitori, ma desidera con
tutta se stessa portare un po’ di colore in questo luogo di
alienazione. Il suo desiderio è tanto profondo da riuscire a donare
il suo stesso spirito ad un piccolo albero di tiglio sonante;
incarnata nell’albero, continuerà così a vivere nel cortile
dell’ospizio, portando finalmente gioia e bellezza. E ancora in Tum
Tum Tum! l’autrice
ci parla di un legame generazionale molto speciale che lega un nonno
alla sua nipotina, intessuto delle
storie che si raccontano, perché solo “chi è molto vecchio e chi
è nuovo al mondo capisce certe cose”. Rapita e costretta all’oblio
dal popolo sotto-terrestre, sarà proprio la voce del nonno che
intona la loro filastrocca a risvegliare la sua coscienza e
riportarla in superficie. La parola narrata è ancora una volta
testimonianza di condivisione e strumento di salvezza.
È
ben chiaro a questo punto che la produzione di Astrid Lindgren,
autentico talento narrativo, richieda di essere esplorata con
attenzione e riscoperta.
Che cosa può avere di tanto affascinante una buca nel cortile di una scuola? Un cortile che ha ovviamente la consueta serie di attrazioni per bambini (altalene, campi da pallavolo, strutture per arrampicarsi)… Tuttavia, una semplice buca diventa lo scenario preferenziale di gioco, al punto da meritarsi addirittura l’iniziale maiuscola ed essere denominata appunto “La Buca”.
La
risposta è molto semplice: “E’ piena di salite e di discese, di rami e di
sassi, e in un punto c’è del fango giallo che non finisce mai!”. E soprattutto “Lì si può giocare a
qualsiasi cosa”. Insomma, è lo scenario perfetto per giocare liberamente a
ciò che si vuole, riempendo continuamente di significati nuovi uno spazio
destrutturato e imprevedibile.
Questo
delizioso albo scritto e illustrato di Emma
AdBåge – una delle più promettenti illustratrici svedesi di nuova
generazione – affronta un tema pedagogico oggi particolarmente attuale, ossia forte
tendenza all’eliminazione del rischio. Oggi gli ambienti di vita del
bambino sono sempre più sicuri, sia dal punto di vista fisico che sociale, e
parallelamente gli adulti impegnati nell’educazione delle nuove generazioni
eccedono spesso in iperprotettività, impedendo al bambino di fare una
naturale esperienza di autoregolazione al rischio. Al rischio occorre infatti
essere intenzionalmente e gradualmente esposti, al fine di educare
all’esplorazione dei propri limiti e possibilità.
Al contrario, molti adulti di oggi eliminano in partenza la possibilità di rischio (non solo fisico, ma anche emotivo e sociale), l’esposizione alla frustrazione o all’insuccesso, nell’illusoria attesa di contribuire alla felicità e alla sicurezza del bambino. Nel libro questa fantasia angosciosa dell’adulto, che ovviamente interviene regolarmente per impedire il gioco libero dei bambini nei pressi della Buca, è espressa con una frase puntuale e lapidaria: “perché si può morire”.
Inoltre,
nelle società occidentali la maggior parte delle attività dei bambini
(sportive, culturali, ricreative) sono organizzate, pianificate e gestite da
adulti. Nella vita di molti bambini di oggi, quasi non esiste la reale
esperienza di tempolibero, perché l’intera giornata è scandita
da tempi, spazi e gruppi con strutture burocratiche da rispettare. Il risultato
è una generazione di bambini più incapaci di valutare situazioni e distinguere
pericoli.
Ecco
che La Buca diventa rappresentazione fisica e metaforica dell’innato desiderio di
esplorazione del bambino, il gusto per l’avventura, la necessità di scoperta e
di confronto con la complessità. È lo spazio fisico che consente giochi
sempre nuovi, in cui il bambino impara a gestire il proprio corpo, a misurare
proporzioni e rapporti, a sviluppare equilibrio e adattabilità.
La
Buca non è solo materialmente “un vuoto da riempire”, è anche metaforicamente assenza,
spazio vuoto, ossia il contesto giusto e terreno fertile per stimolare la creatività.
È irregolarità e imprevedibilità, la rottura degli schemi ludici
preconfezionati dagli adulti.
Il divieto dell’adulto non impedirà l’intimo desiderio dei bambini di misurarsi con La Buca: non potendo più giocare dentro la buca, inizieranno a sostare sul confine, irreparabilmente attratti dalle sue potenzialità di gioco. Il confine della buca non è solo fisico ovviamente, ma anche simbolico, ossia il desiderio di valicare il confine delle regole dell’adulto. E quando la buca addirittura verrà riempita, scomparendo definitivamente dal cortile, ecco che lo sguardo dei bambini si sposterà al Mucchio, un nuovo territorio da esplorare e conquistare. Purchè non sia l’adulto a definire i confini del gioco.
La comunicazione grafica è una delle più antiche adottate dall’essere umano per esprimere situazioni, sentimenti, bisogni; parallelamente all’evoluzione dell’uomo, ha assunto modalità sempre nuove con cui veicolare i propri contenuti, adattandosi a contesti socioculturali molteplici e sfruttando le novità tecnologiche del proprio tempo.
Il fumetto è una di queste modalità
espressive, capace di coniugare le acquisizioni di molte arti: innanzitutto le tecniche
del disegno pittorico per le immagini, le tecniche narrative per i
dialoghi, ma anche le tecniche di inquadratura del cinema. Il fumetto,
infatti, in quanto insieme di vignette che in sequenza creano un’azione, ha
un’enorme capacità di esprimere situazioni, sentimenti e stati d’animo molteplici.
Tuttavia, da un punto di vista formativo, il fumetto non ha goduto sempre di grande popolarità e forse anche oggi le sue potenzialità sono sottovalutate…
Storicamente il fumetto nasce negli Stati
Uniti alla fine del XIX secolo (Yellow Kid è considerato il primo
fumetto della storia) e da quel momento questo nuovo prodotto narrativo verrà
esportato in tutto il mondo, diventando un fenomeno popolare di massa. In
Italia la storia del fumetto è avviata da «Il Corriere dei Piccoli» (nato nel
1908), utilizzato anche dal fascismo come strumento di propaganda politica,
finalizzato a trasmettere l’amore patriottico nelle giovani generazioni.
Tuttavia, nel secondo dopoguerra, esperti e
studiosi di educazione si scagliano duramente contro il fumetto, addirittura
con una proposta di legge di censura preventiva: il fumento viene considerato
“nefasto” e pericoloso per l’educazione dei giovani, poiché esalta
l’aggressività (Nilde Iotti, 1951).
Dagli anni 60 però, la produzione fumettistica
decolla definitivamente: si moltiplicano i generi e si diffonde il fumetto
d’autore, dove si presta una crescente attenzione al risultato estetico e alla
qualità dell’immagine, sempre più curata e raffinata. Il culmine del successo
dei fumetti in Italia si colloca fra gli anni 60 e 70 (in questi anni i fumetti
italiani sono i più venduti nel mondo occidentale). Nel 1965, nasce anche il “Salone
internazionale dei Comics”: per la prima volta il fumetto, tradizionalmente
relegato alle sottoculture popolari, viene elevato a materia di studio anche
accademico. Il «Corriere dei Piccoli» vive una fase di grande rinnovamento,
grazie anche all’importazione di fumetti come i Puffi e Lucky Luke, oltre che personaggi
emergenti, tra cui Corto Maltese, La Pimpa, Lupo Alberto.
Oggi anche il mondo accademico è generalmente concorde
nel riconoscere la dignità di questa produzione narrativa – anche definita “letteratura
disegnata” – e la sua funzione educativa e didattica: uno strumento utile,
efficace e generalmente gradito, con cui costruire percorsi didattici e unità
di apprendimento.
Lo stesso Gianni Rodari, nel suo ben noto
passaggio “9 modi per insegnare ai ragazzi a odiare la lettura”(1964, Giornale dei Genitori), indica il seguente: “Presentare il libro come alternativa
al fumetto; il fumetto ha la
funzione di nutrire e alimentare il bisogno di avventure, di comicità da
consumare in fretta, da rinnovare spesso: è maneggevole, è economico, è
scambiabile (…) non ha niente a che fare con la lettura, è un’altra cosa, ma i
ragazzi non hanno bisogno soltanto di buone letture”.
Insomma, il principio guida per l’adulto è
sempre lo stesso: il bambino deve essere messo nelle condizioni di poter fare
scelte che soddisfino i suoi gusti e bisogni. La lettura non è solo strumento
didattico, ma possibilmente anche piacere. Calvino
parlerebbe di “lettura sensuale”,
ossia capace di assorbire tutti i nostri sensi e farci evadere in un mondo in
cui si vorrebbe permanere. E il fumetto – con la sua commistione di immagini,
parola scritta e simbologia grafica – ne ha certamente tutte le potenzialità.
Marrone
G., Il fumetto fra pedagogia e racconto. Manuale di didattica dei comics a
scuola e in biblioteca, 2004, Tunué
Si può imparare anche da un buon film d’animazione
Si possono trattare argomenti impegnati e rilevanti anche attraverso modalità meno tradizionali, capaci di stimolare l’apprendimento con “leggerezza” (mai intesa come superficialità)
Oggi il film d’animazione rappresenta un fenomeno culturale di enorme rilevanza
sociale, responsabile della produzione di personaggi e narrazioni di popolarità
internazionale, capaci di segnare culturalmente il pubblico di ogni età e di
suggerire – più o meno esplicitamente – importanti cambiamenti in atto per quanto
riguarda modelli di pensiero, ruoli sociali, sistemi di valori e criticità del
mondo attuale.
Ma soprattutto… il film d’animazione è portatore spesso di una saggezza inaspettata, capace di testimoniare cambiamenti fondamentali nello sviluppo dell’essere umano e dei gruppi sociali, di segnalare l’urgenza di problematicità del mondo attuale, oltre che di evocare insegnamenti di grande rilevanza educativa. Ecco perché il film d’animazione può incontrare favorevolmente la pedagogia e suggerire riflessioni su temi di grande attualità dal punto di vista educativo e formativo, purché lo spettatore sia disposto ad accogliere il prodotto d’animazione innanzitutto come storia, ossia alla stregua dei grandi racconti di ogni tempo, dotate di un’intrinseca capacità narrativa e trasversalità comunicativa.
Il libro è suddiviso in sezioni tematiche (emozioni, sviluppo della personalità, identità femminile e gruppi sociali), all’interno delle quali film di produzioni diverse colloquiano fra loro per stimolare riflessioni sugli argomenti in questione:
C. 1 Emozioni in gioco. La competenza emotiva
spiegata dal cinema d’animazione (Inside Out, Trolls, La canzone del mare)
C.2 Crescere: un equilibrio faticoso tra
costruzione dell’identità e relazioni genitoriali (Coco, Rudolf alla
ricerca della felicità, Il Piccolo Principe, Ritorno al bosco dei 100 acri)
C.3 L’evoluzione dell’identità femminile: nuove
eroine per il cinema d’animazione (Frozen, Oceania, Ribelle)
C.4 La sfida del 21° secolo: abitare il pianeta,
vivere con gli altri (Zootropolis, Wall-e)
Un altro romanzo (o dovremmo
parlare di fiaba moderna?) che ho amato tantissimo da bambina e che ho riletto oggi
con rinnovato stupore per le innumerevoli sollecitazioni educative in esso
contenute. Sto parlando di Ronja la figlia del brigante, scritto nel 1981 da
quel genio narrativo di Astrid Lindgren (ai più nota per il personaggio
di Pippi Calzelunghe, ma autrice di altre meravigliose storie). Quali temi
affronta? Solo per citarne alcuni:
Il rapporto d’amore con la natura (tema quanto mai attuale oggi, in dibattiti sempre più accesi sull’ecosostenibilità). Come dimenticare il grido euforico di primavera di Ronja? “Ed era arrivata. E si sentiva immersa nella primavera. Tutto era meraviglioso ovunque, intorno a lei e dentro di lei. Ronja si mise a gridare sempre più forte, e poi dovette spiegarlo a Birk. – Se non grido il mio grido di primavera, scoppio. Ascolta, ascolta bene la primavera!”. È una natura amata e rispettata in tutte le sue manifestazioni stagionali, bella d’estate come d’inverno, popolata anche da creature misteriose e temibili (griginani, culotti, ombrignomi e strigi)
Lo scatto evolutivo della pre-adolescenza (gli 11 anni di Ronja sono particolarmente attuali): la sua necessità di staccarsi da un padre divorato da un amore iperprotettivo e soffocante, orgogliosissimo di una figlia femmina come successore; il suo bisogno di sperimentarsi in autonomia, con un’esperienza di vita selvaggia nel bosco, intrinsecamente capace di sviluppare potenzialità e rivelare limiti (che ci ricorda tanto le prove di sopravvivenza degli eroi fiabeschi)
La competenza emotiva: in un solo capitolo (il 12), i protagonisti riescono a fluttuare repentinamente in tutta la gamma delle emozioni primarie. Sono, nell’arco di poche ore: pallidi dalla collera, spossati dalla sparizione della collera, abbattuti dalla tristezza e dal pentimento, impauriti e angosciati, morsi dalla vergogna e finalmente felici, anzi, entusiasti…
L’incontro con un partner affettivo maturo (naturale conseguenza del superamento dell’oggetto d’amore primario paterno), che è un po’ fratello, un po’ migliore amico, un po’ certamente qualche altra cosa che sta nascendo, ma a cui non si sa dare ancora un nome, come legittimamente succede in preadolescenza
Un’interessante, attuale e inusuale riflessione sui ruoli di genere e sociali: innanzitutto Ronja è un’eroina femminile dalla natura coraggiosa e selvaggia (chi ha detto che le fiabe sono popolate solo da principesse che aspettano principi azzurri?), la quale, per imparare a non avere paura, si mette intenzionalmente di fronte alla situazione di pericolo! “Ronja non fece altro che stare attenta a tutto quello che era pericoloso e si esercitò a non avere paura”. Ma Ronja è anche una figlia di brigante, destinata ad essere brigante, anzi, capo-banda, che sin da bambina si opporrà a questa aspettativa genitoriale: insomma, una bambina selvaggia, coraggiosa, ma compassionevole, che non può tollerare di guadagnarsi da vivere dai soprusi e dalle sofferenze altrui, capace di ribellarsi ad un modello adulto autorevole di devianza sociale.
C’è altro da dire sull’attualità di questa storia? Come sovente, mi trovo a ripetermi che ci sono storie con una potenzialità formativa intrinseca, capaci di trasmettere messaggi di un’attualità indeterminata perché parlano dell’essere umano in sé, nella sua autenticità evolutiva, pur nel dinamismo dei cambiamenti socioculturali.
I corpi non sono mai semplice esperienza fisica dell’esistenza umana, ma rappresentazioni sociali che veicolano significati culturali, credenze, desideri e contraddizioni di un dato momento storico.
Ogni cultura ha stabilito nel tempo un rimodellamento del corpo, attraverso accorgimenti estetici che portavano di solito all’accentuazione o alla riduzione di qualche aspetto dell’anatomia o di qualche espressione naturale del corpo. Tuttavia, secondo molti studi di matrice socio-antropologica, il corpo femminile, ben più di quello maschile, risulta esposto alle molteplici manipolazioni dirette a modificarne forma e aspetto e, contemporaneamente, al rischio di essere sottoposto al giudizio pubblico e a momenti di criticità: conquistare un corpo accettabile può essere estremamente difficile e richiedere alle donne fatiche importanti, ma necessarie, in quanto il corpo è il metro di valutazione fondamentale del valore di una donna. La cura del proprio corpo richiede quindi un’attenzione meticolosa, in quanto la bellezza fisica è un attributo irrinunciabile della propria personalità (Testoni, 2001).
Ma da dove nascerebbe la centralizzazione della donna sull’esperienza corporea?
Nel pensiero occidentale, fin dall’antichità è rintracciabile il dualismo maschile – femminile, caratteristico della differenziazione di genere (vedi Aristotele, per esempio); esso assume un ruolo fondamentale nella comprensione della storia del corpo femminile e delle modificazioni che ha attraversato nel corso del tempo. Le donne, oltre a possedere un corpo, sono state da sempre identificate con il corpo stesso, concepito come dimensione esistenziale tipicamente femminile, dalla mitologia e dal pensiero scientifico, filosofico e religioso. Pertanto, la bellezza e quindi la definizione dei canoni estetici desiderabili, sono stati sempre riferiti soprattutto al genere femminile: l’uomo ha un corpo, la donna è corpo.
Fin dalle più antiche civiltà, si
è assistito alla definizione del genere maschile come homo faber, titolare, quindi, della fabbricazione, della
produzione, della razionalità e del lavoro e della donna, invece,
essenzialmente come corpo. L’uomo si è definito così depositario dell’azione (ossia
la componente strumentale del corpo), mentre la donna del corpo in sé e, di
conseguenza, di tutte le strategie per migliorarne l’estetica.
Tuttavia, gli artifici adottati
dalle donne per aderire all’ideale estetico della magrezza sono stati sovente degli
autentici supplizi, accettati e perpetrati dalle comunità femminili, per aderire il più possibile al modello
imperante di femminilità. Si pensi a questo proposito, alla moda del corsetto, diffusasi nella seconda metà
del XIX secolo, (Shorter, 1984). Il corsetto,
realizzato con inflessibili stecche di acciaio o di osso di balena, rimodellava
la figura in un atteggiamento regale e un movimento più femminilizzato, ma
contemporaneamente rese estremamente difficile ogni piegamento o inspirazione
profonda.
Spostandoci nella cultura orientale, nel periodo di decadenza
della classe aristocratica, si diffuse l’usanza della fasciatura dei piedi al fine di renderli il più possibile
minuscoli, simbolo invidiabile di lusso e raffinatezza. Questa dolorosa forma
di mutilazione corporea riduceva la capacità della donna di muoversi e di
mantenere l’equilibrio, rendeva la sua figura più fragile e l’andatura più
vacillante, ma contemporaneamente la trasformava in una incomparabile icona di
femminilità e seduzione, secondo i canoni estetici del tempo.
Oggi, la stessa ricerca estenuante della magrezza, modello estetico imperante nelle società attuali, e di tutti i sacrifici necessari per ottenere questo risultato (il business della Diet Industry, la chirurgia estetica), fino all’allarmante fenomeno dei Disturbi del Comportamento Alimentare, reale epidemia sociale, può essere letta in questa prospettiva.
Secondo alcuni autori, infatti, (Bordo, 1997) i disturbi alimentari costituiscono l’espressione estrema del mutamento radicale delle aspettative sociali nei confronti delle donne, che si è manifestato a partire dagli anni Sessanta (in termini di emancipazione, competitività e l’indipendenza, ossia un sistema di valori fortemente in conflitto con la configurazione tradizionale del ruolo femminile). E proprio in questi anni inizia a diffondersi, nelle società industrializzate e a livello di massa, l’ideale estetico della magrezza: il corpo magro e asciutto, con la conseguente perdita delle forme tipicamente femminili, può essere interpretato come simbolico superamento della femminilità tradizionale e domestica, quindi, come una forma di emancipazione femminile. Pertanto, la magrezza oggi non ha solo il significato di bellezza, ma incarna gli ideali culturali dominanti delle nostre società e identifica le persone “che contano” ossia quelle caratterizzate da competitività, indipendenza, successo e affermazione sociale (Bastone, 2009).
Qualunque sia il modello estetico che le diverse culture hanno definito come simbolo di bellezza, il principio generale che governa l’identità femminile non è cambiato: il corpo è il terreno principale di competizione tra le donne e l’immagine esteriore è la misura femminile della desiderabilità e del valore. La cultura ha insegnato alle donne a essere corpi insicuri e difettuali, perennemente alla ricerca di segni di imperfezione, impegnati in una lotta costante verso una perfettibilità illimitata (Dalla Ragione, 2012).
Le
persone che incontro in aula e che restano affascinate dal mio approccio
formativo basato su materiale fiabesco, spesso mi chiedono da dove cominciare
per iniziare ad orientarsi all’interno di una bibliografia minima ragionata sulle funzioni formative ed educative
delle fiabe. Ecco a mio avviso i primi testi da cui partire:
I due manuali di Vladimir Propp (Morfologia della fiaba e Le radici storiche dei racconti di fate), fondamentali per iniziare ad analizzare in maniera scientifica il materiale fiabesco, in particolare gli elementi di continuità transculturale e la contestualizzazione socioeconomica della narrazione fiabesca. Nel primo volume, definito appositamente “Morfologia”, l’autore analizza proprio come uno scienziato naturalista il materiale narrativo, nelle sue caratteristiche formali e strutturali (definite funzioni) che si ritrovano nelle produzioni di tutto il mondo, aldilà del contesto di appartenenza. Nel secondo volume Propp sostiene la teoria per cui le fiabe siano il prodotto dell’evoluzione sociale, storica ed economica dell’uomo: le fiabe sono il residuo antropologico dei riti di iniziazione caratteristici del regime dei clan e in esse si ritrovano simbolicamente molti elementi (l’allontanamento da casa, la casetta nel bosco, le mutilazioni e la morte temporanea, la scienza furba, i doni magici), «finché il rito esisteva era cosa viva, non potevano esserci fiabe su di esso»
Il breve saggio Sulle fiabe di Tolkien: fantasia, recupero, fuga, consolazione sono i fattori necessari per la realizzazione di una buona fiaba. “Feeria è un paese pericoloso, pieno di trabocchetti per gli incauti e di tranelli per i temerari. E tra questi posso essere annoverato anch’io perché, pur essendo stato un appassionato di fiabe fin da quando ho imparato a leggere, e a volte le abbia fatte oggetto di riflessione, mai però ho affrontato il problema da professionista“.
Per un’analisi psicoanalitica delle fiabe, imperdibile il saggio di BettelheimIl mondo incantato: situazioni, personaggi, eventi delle fiabe non sono una descrizione fattuale della realtà ma rappresentazione simbolica dei processi psichici interiori, in particolare quelli legati al conflitto edipico. Pertanto la lettura della fiaba consente di accogliere, dare forma, esprimere e liberare contenuti emotivi inconsci che creano disagio nel bambino “La fiaba è terapeutica perché il soggetto trova le sue proprie soluzioni, meditando su quanto la storia sembra implicare sei suoi riguardi e sui conflitti interiori in quel momento della sua vita”
Il saggio di Italo CalvinoSulla fiaba: l’autore, oltre ad aver realizzato l’eccezionale raccolta di fiabe popolari italiane, ha prodotto questo interessante riflessione critica sulle caratteristiche delle fiabe. Calvino sostiene che le fiabe rappresentano, in forma simbolica, una spiegazione generale della vita, dove si ritrovano i grandi problemi e difficoltà esistenziali che gli esseri umani possono incontrare nel loro percorso (la nascita dei figli, la rivalità tra fratelli, l’allontanamento d acasa, le prove per diventare grandi, la relazione di coppia)
La grammatica della fantasia di Gianni Rodari: l’autore, legittimamente soprannominato “il genio della fantasia” sostiene l’importanza dell’immaginazione creativa nei programmi educativi dei bambini. Interessanti i suoi suggerimenti per l’uso della fiaba con bambini più grandi, attraverso attività creative che consentono al bambino un ruolo più attivo (modernizzazione della storia, inversione di ruoli, finali diversi, insalata di favole, etc). “Una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni, immagini, analogie, ricordi, significati, sogni in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio”
Il mio libroLefiabe raccontate agli adulti. Storie di ieri e di oggi per la formazione, raccoglie i suggerimenti più interessanti che ho appreso dallo studio sistematico del materiale fiabesco, privilegiandone gli aspetti pedagogici. Il libro ripercorre idealmente il ciclo di vita dell’individuo: la nascita, l’adolescenza, la relazione di coppia, la genitorialità, la formazione, il tempo libero e il lavoro. Le tappe e gli eventi significativi del ciclo di vita sono analizzati attraverso il supporto di molteplici fiabe, tra cui la Sirenetta, Il Mago di Oz, Peter Pan, Alice nel Paese delle Meraviglie, Cappuccetto Rosso, Sindibàd, La Gabbianella e il Gatto, Frozen e molte altre ancora: “mi sembra che il potere formativo della fiaba sia dato soprattutto dall’esperienza di relazione: la narrazione costringe a recuperare la categoria del tempo: la storia ascoltata e ricevuta, narrata o donata, è un tempo pieno e denso di significati, perché non è realizzabile se non attraverso la relazione, con l’altro o con se stessi. Si tratta indubbiamente di un’acquisizione fondamentale, anche per l’uomo contemporaneo, anche in età adulta”
A
questo punto quali fiabe leggere? La prima fondamentale indicazione è di
leggere la versione originale delle
fiabe, sorvolando su revisioni edulcorate, rimaneggiate nei finali e nei personaggi,
erroneamente ripensate per un pubblico infantile. Le versioni originali si
trovano nelle sezioni per adulti delle librerie, spesso sugli scaffali dei classici.
E da qui sono partita io, leggendo inizialmente la raccolta dei Grimm, Calvino,
Le Mille e una notte, Andersen, Carroll, Baum, Collodi, le novelline di
Gozzano, le fiabe di Capuana, Li Cunti di Basile, la produzione di Rodari e di
Sepulveda. Ma il raggio di studio si è ben presto ampliato e, spinta dalla
curiosità, ho iniziato ad esplorare trame meno note o etnicamente
caratteristiche, tra cui: fiabe africane, irlandesi, russe, islandesi,
caraibiche, birmane, indiane, polinesiane, le leggende dei Mari del Sud e
quelle dei Pellerossa… La cosa più bella? Scoprire
regolarmente l’equilibrio tra
particolare e universale, tra globale
e locale. Le fiabe sono il risultato della necessità narrativa
tipicamente umana, con cui comunichiamo la nostra specificità culturale e
al contempo l’appartenenza alla storia umana universale.
Infine, sono regolarmente impegnata in percorsi di formazione sul tema delle fiabe e sulle possibili applicazioni del materiale fiabesco nei più variegati contesti formativi e professionali. Perché, a mio avviso, qualsiasi argomento può essere trattato attraverso la fiaba e una sola fiaba si presta a trattare molti argomenti. Se sei interessato, non esitare a contattarmi.