Ronja di Astrid Lindgren: un’eroina di oggi

Un altro romanzo (o dovremmo parlare di fiaba moderna?) che ho amato tantissimo da bambina e che ho riletto oggi con rinnovato stupore per le innumerevoli sollecitazioni educative in esso contenute. Sto parlando di Ronja la figlia del brigante, scritto nel 1981 da quel genio narrativo di Astrid Lindgren (ai più nota per il personaggio di Pippi Calzelunghe, ma autrice di altre meravigliose storie). Quali temi affronta? Solo per citarne alcuni:

  • Il rapporto d’amore con la natura (tema quanto mai attuale oggi, in dibattiti sempre più accesi sull’ecosostenibilità). Come dimenticare il grido euforico di primavera di Ronja? “Ed era arrivata. E si sentiva immersa nella primavera. Tutto era meraviglioso ovunque, intorno a lei e dentro di lei. Ronja si mise a gridare sempre più forte, e poi dovette spiegarlo a Birk. – Se non grido il mio grido di primavera, scoppio. Ascolta, ascolta bene la primavera!”. È una natura amata e rispettata in tutte le sue manifestazioni stagionali, bella d’estate come d’inverno, popolata anche da creature misteriose e temibili (griginani, culotti, ombrignomi e strigi)
  • Lo scatto evolutivo della pre-adolescenza (gli 11 anni di Ronja sono particolarmente attuali): la sua necessità di staccarsi da un padre divorato da un amore iperprotettivo e soffocante, orgogliosissimo di una figlia femmina come successore; il suo bisogno di sperimentarsi in autonomia, con un’esperienza di vita selvaggia nel bosco, intrinsecamente capace di sviluppare potenzialità e rivelare limiti (che ci ricorda tanto le prove di sopravvivenza degli eroi fiabeschi)
  • La competenza emotiva: in un solo capitolo (il 12), i protagonisti riescono a fluttuare repentinamente in tutta la gamma delle emozioni primarie. Sono, nell’arco di poche ore: pallidi dalla collera, spossati dalla sparizione della collera, abbattuti dalla tristezza e dal pentimento, impauriti e angosciati, morsi dalla vergogna e finalmente felici, anzi, entusiasti…
  • L’incontro con un partner affettivo maturo (naturale conseguenza del superamento dell’oggetto d’amore primario paterno), che è un po’ fratello, un po’ migliore amico, un po’ certamente qualche altra cosa che sta nascendo, ma a cui non si sa dare ancora un nome, come legittimamente succede in preadolescenza
  • Un’interessante, attuale e inusuale riflessione sui ruoli di genere e sociali: innanzitutto Ronja è un’eroina femminile dalla natura coraggiosa e selvaggia (chi ha detto che le fiabe sono popolate solo da principesse che aspettano principi azzurri?), la quale, per imparare a non avere paura, si mette intenzionalmente di fronte alla situazione di pericolo! “Ronja non fece altro che stare attenta a tutto quello che era pericoloso e si esercitò a non avere paura”. Ma Ronja è anche una figlia di brigante, destinata ad essere brigante, anzi, capo-banda, che sin da bambina si opporrà a questa aspettativa genitoriale: insomma, una bambina selvaggia, coraggiosa, ma compassionevole, che non può tollerare di guadagnarsi da vivere dai soprusi e dalle sofferenze altrui, capace di ribellarsi ad un modello adulto autorevole di devianza sociale.

C’è altro da dire sull’attualità di questa storia? Come sovente, mi trovo a ripetermi che ci sono storie con una potenzialità formativa intrinseca, capaci di trasmettere messaggi di un’attualità indeterminata perché parlano dell’essere umano in sé, nella sua autenticità evolutiva, pur nel dinamismo dei cambiamenti socioculturali.

*Per ogni approfondimento: Antonella Bastone (2021), Le fiabe raccontate agli adulti. Storie di ieri e di oggi per la formazione, CELID Edizioni

Storia di corpi imperfetti

Donna davanti al sole – Mirò

I corpi non sono mai semplice esperienza fisica dell’esistenza umana, ma rappresentazioni sociali che veicolano significati culturali, credenze, desideri e contraddizioni di un dato momento storico.

Ogni cultura ha stabilito nel tempo un rimodellamento del corpo, attraverso accorgimenti estetici che portavano di solito all’accentuazione o alla riduzione di qualche aspetto dell’anatomia o di qualche espressione naturale del corpo. Tuttavia, secondo molti studi di matrice socio-antropologica, il corpo femminile, ben più di quello maschile, risulta esposto alle molteplici manipolazioni dirette a modificarne forma e aspetto e, contemporaneamente, al rischio di essere sottoposto al giudizio pubblico e a momenti di criticità: conquistare un corpo accettabile può essere estremamente difficile e richiedere alle donne fatiche importanti, ma necessarie, in quanto il corpo è il metro di valutazione fondamentale del valore di una donna. La cura del proprio corpo richiede quindi un’attenzione meticolosa, in quanto la bellezza fisica è un attributo irrinunciabile della propria personalità (Testoni, 2001).

Ma da dove nascerebbe la centralizzazione della donna sull’esperienza corporea?

Nel pensiero occidentale, fin dall’antichità è rintracciabile il dualismo maschile – femminile, caratteristico della differenziazione di genere (vedi Aristotele, per esempio); esso assume un ruolo fondamentale nella comprensione della storia del corpo femminile e delle modificazioni che ha attraversato nel corso del tempo. Le donne, oltre a possedere un corpo, sono state da sempre identificate con il corpo stesso, concepito come dimensione esistenziale tipicamente femminile, dalla mitologia e dal pensiero scientifico, filosofico e religioso. Pertanto, la bellezza e quindi la definizione dei canoni estetici desiderabili, sono stati sempre riferiti soprattutto al genere femminile: l’uomo ha un corpo, la donna è corpo.

Fin dalle più antiche civiltà, si è assistito alla definizione del genere maschile come homo faber, titolare, quindi, della fabbricazione, della produzione, della razionalità e del lavoro e della donna, invece, essenzialmente come corpo. L’uomo si è definito così depositario dell’azione (ossia la componente strumentale del corpo), mentre la donna del corpo in sé e, di conseguenza, di tutte le strategie per migliorarne l’estetica.

Tuttavia, gli artifici adottati dalle donne per aderire all’ideale estetico della magrezza sono stati sovente degli autentici supplizi, accettati e perpetrati dalle comunità femminili,  per aderire il più possibile al modello imperante di femminilità. Si pensi a questo proposito, alla moda del corsetto, diffusasi nella seconda metà del XIX secolo,  (Shorter, 1984). Il corsetto, realizzato con inflessibili stecche di acciaio o di osso di balena, rimodellava la figura in un atteggiamento regale e un movimento più femminilizzato, ma contemporaneamente rese estremamente difficile ogni piegamento o inspirazione profonda.

Spostandoci nella cultura orientale, nel periodo di decadenza della classe aristocratica, si diffuse l’usanza della fasciatura dei piedi al fine di renderli il più possibile minuscoli, simbolo invidiabile di lusso e raffinatezza. Questa dolorosa forma di mutilazione corporea riduceva la capacità della donna di muoversi e di mantenere l’equilibrio, rendeva la sua figura più fragile e l’andatura più vacillante, ma contemporaneamente la trasformava in una incomparabile icona di femminilità e seduzione, secondo i canoni estetici del tempo.

Oggi, la stessa ricerca estenuante della magrezza, modello estetico imperante nelle società attuali, e di tutti i sacrifici necessari per ottenere questo risultato (il  business della Diet Industry, la chirurgia estetica), fino all’allarmante fenomeno dei Disturbi del Comportamento Alimentare, reale epidemia sociale, può essere letta in questa prospettiva.

Secondo alcuni autori, infatti, (Bordo, 1997) i disturbi alimentari costituiscono l’espressione estrema del mutamento radicale delle aspettative sociali nei confronti delle donne, che si è manifestato a partire dagli anni Sessanta (in termini di emancipazione,  competitività e l’indipendenza, ossia un sistema di valori fortemente in conflitto con la configurazione tradizionale del ruolo femminile). E proprio in questi anni inizia a diffondersi, nelle società industrializzate e a livello di massa, l’ideale estetico della magrezza: il corpo magro e asciutto, con la conseguente perdita delle forme tipicamente femminili, può essere interpretato come simbolico superamento della femminilità tradizionale e domestica, quindi, come una forma di emancipazione femminile. Pertanto, la magrezza oggi non ha solo il significato di bellezza, ma incarna gli ideali culturali dominanti delle nostre società e identifica le persone “che contano” ossia quelle caratterizzate da competitività, indipendenza, successo e affermazione sociale (Bastone, 2009).

Qualunque sia il modello estetico che le diverse culture hanno definito come simbolo di bellezza, il principio generale che governa l’identità femminile non è cambiato: il corpo è il terreno principale di competizione tra le donne e l’immagine esteriore è la misura femminile della desiderabilità e del valore. La cultura ha insegnato alle donne a essere corpi insicuri e difettuali, perennemente alla ricerca di segni di imperfezione, impegnati in una lotta costante verso una perfettibilità illimitata (Dalla Ragione, 2012).

Bibliografia

BASTONE A., (2009), La relazione educativa nella cura dei disturbi alimentari. Il ruolo di genitori, insegnanti, educatori e massmedia, Edizioni La Rondine

BORDO S. (1997), Il peso del corpo, Feltrinelli, Milano

DALLA RAGIONE L. (2012), I Disturbi del Comportamento Alimentare: un’epidemia della modernità, in Il coraggio di guardare, Dipartimento della gioventù

TESTONI I. (2001), Il dio cannibale: anoressia e culture del corpo in occidente, UTET, Torino

SHORTER E. (1984), Storia del corpo femminile, Feltrinelli, Milano

Imparare con le fiabe. Bibliografia minima

Puzzle “Fiabe” di James Christensen

Le persone che incontro in aula e che restano affascinate dal mio approccio formativo basato su materiale fiabesco, spesso mi chiedono da dove cominciare per iniziare ad orientarsi all’interno di una bibliografia minima ragionata sulle funzioni formative ed educative delle fiabe. Ecco a mio avviso i primi testi da cui partire:

  1. I due manuali di Vladimir Propp (Morfologia della fiaba e Le radici storiche dei racconti di fate), fondamentali per iniziare ad analizzare in maniera scientifica il materiale fiabesco, in particolare gli elementi di continuità transculturale e la contestualizzazione socioeconomica della narrazione fiabesca. Nel primo volume, definito appositamente “Morfologia”, l’autore analizza proprio come uno scienziato naturalista il materiale narrativo, nelle sue caratteristiche formali e strutturali (definite funzioni) che si ritrovano nelle produzioni di tutto il mondo, aldilà del contesto di appartenenza. Nel secondo volume Propp sostiene la teoria per cui le fiabe siano il prodotto dell’evoluzione sociale, storica ed economica dell’uomo:  le fiabe sono il residuo antropologico dei riti di iniziazione caratteristici del regime dei clan e in esse si ritrovano simbolicamente molti elementi (l’allontanamento da casa, la casetta nel bosco, le mutilazioni e la morte temporanea, la scienza furba, i doni magici), «finché il rito esisteva era cosa viva, non potevano esserci fiabe su di esso»
  2. Il breve saggio Sulle fiabe di Tolkien: fantasia, recupero, fuga, consolazione sono i fattori necessari per la realizzazione di una buona fiaba. “Feeria è un paese pericoloso, pieno di trabocchetti per gli incauti e di tranelli per i temerari. E tra questi posso essere annoverato anch’io perché, pur essendo stato un appassionato di fiabe fin da quando ho imparato a leggere, e a volte le abbia fatte oggetto di riflessione, mai però ho affrontato il problema da professionista“.
  3. Per un’analisi psicoanalitica delle fiabe, imperdibile il saggio di Bettelheim Il mondo incantato: situazioni, personaggi, eventi delle fiabe non sono una descrizione fattuale della realtà ma rappresentazione simbolica dei processi psichici interiori, in particolare quelli legati al conflitto edipico. Pertanto la lettura della fiaba consente di accogliere, dare forma, esprimere e liberare contenuti emotivi inconsci che creano disagio nel bambino “La fiaba è terapeutica perché il soggetto trova le sue proprie soluzioni, meditando su quanto la storia sembra implicare sei suoi riguardi e sui conflitti interiori in quel momento della sua vita”
  4. Il saggio di Italo Calvino Sulla fiaba: l’autore, oltre ad aver realizzato l’eccezionale raccolta di fiabe popolari italiane, ha prodotto questo interessante riflessione critica sulle caratteristiche delle fiabe. Calvino sostiene che le fiabe rappresentano, in forma simbolica, una spiegazione generale della vita, dove si ritrovano i grandi problemi e difficoltà esistenziali che gli esseri umani possono incontrare nel loro percorso (la nascita dei figli, la rivalità tra fratelli, l’allontanamento d acasa, le prove per diventare grandi, la relazione di coppia)
  5. La grammatica della fantasia di Gianni Rodari: l’autore, legittimamente soprannominato “il genio della fantasia” sostiene  l’importanza dell’immaginazione creativa nei programmi educativi dei bambini. Interessanti i suoi suggerimenti per l’uso della fiaba con bambini più grandi, attraverso attività creative che consentono al bambino un ruolo più attivo (modernizzazione della storia, inversione di ruoli, finali diversi, insalata di favole, etc). “Una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni, immagini, analogie, ricordi, significati, sogni in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio
  6. Il mio libro Le fiabe raccontate agli adulti. Storie di ieri e di oggi per la formazione, raccoglie i suggerimenti più interessanti che ho appreso dallo studio sistematico del materiale fiabesco, privilegiandone gli aspetti pedagogici. Il libro ripercorre idealmente il ciclo di vita dell’individuo: la nascita, l’adolescenza, la relazione di coppia, la genitorialità, la formazione, il tempo libero e il lavoro. Le tappe e gli eventi significativi del ciclo di vita sono analizzati attraverso il supporto di molteplici fiabe, tra cui la Sirenetta, Il Mago di Oz, Peter Pan, Alice nel Paese delle Meraviglie, Cappuccetto Rosso, Sindibàd, La Gabbianella e il Gatto, Frozen  e molte altre ancora: “mi sembra che il potere formativo della fiaba sia dato soprattutto dall’esperienza di relazione: la narrazione costringe a recuperare la categoria del tempo: la storia ascoltata e ricevuta, narrata o donata, è un tempo pieno e denso di significati, perché non è realizzabile se non attraverso la relazione, con l’altro o con se stessi. Si tratta indubbiamente di un’acquisizione fondamentale, anche per l’uomo contemporaneo, anche in età adulta

A questo punto quali fiabe leggere? La prima fondamentale indicazione è di leggere la versione originale delle fiabe, sorvolando su revisioni edulcorate, rimaneggiate nei finali e nei personaggi, erroneamente ripensate per un pubblico infantile. Le versioni originali si trovano nelle sezioni per adulti delle librerie, spesso sugli scaffali dei classici. E da qui sono partita io, leggendo inizialmente la raccolta dei Grimm, Calvino, Le Mille e una notte, Andersen, Carroll, Baum, Collodi, le novelline di Gozzano, le fiabe di Capuana, Li Cunti di Basile, la produzione di Rodari e di Sepulveda. Ma il raggio di studio si è ben presto ampliato e, spinta dalla curiosità, ho iniziato ad esplorare trame meno note o etnicamente caratteristiche, tra cui: fiabe africane, irlandesi, russe, islandesi, caraibiche, birmane, indiane, polinesiane, le leggende dei Mari del Sud e quelle dei Pellerossa… La cosa più bella? Scoprire regolarmente l’equilibrio tra particolare e universale, tra globale e locale. Le fiabe sono il risultato della necessità narrativa tipicamente umana, con cui comunichiamo la nostra specificità culturale e al contempo l’appartenenza alla storia umana universale.

Infine, sono regolarmente impegnata in percorsi di formazione sul tema delle fiabe e sulle possibili applicazioni del materiale fiabesco nei più variegati contesti formativi e professionali. Perché, a mio avviso, qualsiasi argomento può essere trattato attraverso la fiaba e una sola fiaba si presta a trattare molti argomenti. Se sei interessato, non esitare a contattarmi.

*Antonella Bastone (2021), Le fiabe raccontate agli adulti. Storie di ieri e di oggi per la formazione, CELID Edizioni

Il dilemma del Curriculum Vitae: formato europeo, personalizzato, infografica o….self-marketing di Leonardo da Vinci?

A fronte dell’attiva ricerca di lavoro in cui oggi persone di ogni età si impegnano, spesso ci si imbatte nella questione del formato del curriculum vitae più adatto. Si tratta di un dibattito certamente aperto, su cui anche i professionisti delle Risorse Umane potrebbero non concordare. Nei miei percorsi di orientamento al lavoro e bilancio di competenze, cerco soprattutto di illustrare i vantaggi e i vincoli di ognuno, al fine che si possa individuare il formato in cui ci si sente più a proprio agio per descrivere il proprio percorso.

Se il formato europeo consente una prevedibilità dell’ordine e della struttura logica delle informazioni, utile sia per il candidato che per il selezionatore, dall’altra parte non spicca certo per originalità. I formati personalizzati, anche su modelli infografici (alcuni predefiniti e scaricabili dal web), permettono di sintetizzare più agilmente le informazioni e di personalizzarle graficamente.

Tuttavia, aldilà del formato scelto, l’elemento essenziale resta la capacità del soggetto di valorizzare e rendere interessante il proprio percorso formativo e professionale agli occhi di chi potrebbe riceverlo. A questo proposito, un utile contributo è la lettera di presentazione – curriculum realizzata da Leonardo da Vinci nel lontano 1482 quando, allora trentenne, decise di presentarsi alla corte di Ludovico il Moro, anticipando la propria candidatura con un elaborato, stilato in 12 punti essenziali. La lettera, aldilà delle singole competenze descritte, rappresenta un ottimo (e lungimirante) esempio di self- marketing. Perché?

Innanzitutto per l’abilità di descrivere se stesso in termini di competenze, come anticipato fin dall’inizio: “Le cose che sono in grado di fare sono elencate, anche se brevemente, qui di seguito (ma sono capace di fare molto di più, a seconda delle esigenze)”. Non è un’abilità così scontata, se consideriamo tutte le volte in cui un candidato si presenta semplicemente facendo un elenco delle esperienze avute. Ricordiamo, una competenza è “un insieme di risorse soggettive e oggettive che un soggetto può mobilitare per affrontare una situazione con successo. Insomma occorre imparare ad argomentare le esperienze avute in termini di competenze acquisite, di abilità nel realizzare qualche cosa (Cosa ho imparato? Cosa mi sono portato a casa da quell’esperienza?”).

Leonardo da Vinci ad esempio dice di sé: “So realizzare opere scultoree in marmo, bronzo e terracotta, e opere pittoriche di qualsiasi tipo”. Ma è abilissimo anche ad anticipare quello di cui il committente potrà fruire se gli darà una possibilità: “Potrò eseguire il monumento equestre in bronzo che in eterno celebrerà la memoria di Vostro padre e della nobile casata degli Sforza”.

Non manca certo di convinzione, autostima e fiducia, quando conclude dicendo: “Se le cose che ho promesso di fare sembrano impossibili e irrealizzabili, sono disposto a fornirne una sperimentazione in qualunque luogo voglia Vostra Eccellenza, a cui umilmente mi raccomando”. Insomma, una bella conferma del desiderio di mettersi alla prova e dimostrare il proprio valore.

Lo Storytelling, una ginnastica insostituibile per il nostro cervello

Oggi ho ricevuto un dono speciale, una confezione di Cubi Cantastorie, un gioco molto semplice, ma dalle possibilità infinitamente produttive in termini di immaginazione narrativa. Lanciati i dadi, l’accostamento casuale delle immagini raffigurate stimola l’autore a raccontare una storia che contenga quegli elementi.

Ci troviamo quindi nel campo delle infinite possibilità narrative, ovvero lo Storytelling. Molto è stato detto e scritto sulle intrinseche potenzialità formative di questa pratica, ma credo valga la pena ricordare e sostenere – in un mondo che procede per immagini e constata impietosamente l’affermarsi e il ritorno di tante forme di analfabetismo – la straordinaria stimolazione cognitiva che la produzione di storie è in grado di attivare.

Gianni Rodari, nella sua opera La Grammatica della Fantasia, sosteneva che “una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena”. Bruner sosteneva addirittura che una delle modalità fondamentali con cui la mente umana approccia la realtà è proprio il pensiero narrativo. Non solo, lo storytelling sarebbe inscindibile dall’esistenza stessa, perché fin da bambini pensiamo, analizziamo e raccontiamo il mondo in forma narrativa: la nostra mente processa la realtà attraverso unità temporali e le connette attribuendo loro un ordine e delle relazioni. Insomma, la nostra mente racconta continuamente storie, individuando cornici (frame) e micro-sceneggiature (script) in tutto ciò che la circonda.

La creazione di storie rappresenta a livello neurocognitivo un esercizio straordinario della corteccia che aumenta in modo significativo le capacità di ragionamento ipotetico-deduttivo, di pianificazione e di problem solving.  È il pensiero narrativo e fantastico che permette di elaborare ipotesi di cambiamento del futuro: solo prendendo in considerazione un mondo possibile si può agire sulla realtà e intervenire per trasformarla attivamente. D’altra parte lo stesso Einstein sosteneva: «Se volete che vostro figlio sia intelligente, raccontategli delle fiabe; se volete che sia molto intelligente, raccontategliene di più»

Oggi gli strumenti ludici e didattici per lo storytelling in commercio sono moltissimi: dai giochi di carte (si pensi alle carte di Propp o di Rodari) fino alle esperienze digitali più moderne. A proposito, l’immagine in foto rappresenta il mio primo lancio di dadi all’apertura del gioco… che storia racconterà?

Antonella Bastone (2020), Le fiabe raccontate agli adulti. Storie di ieri e di oggi per la formazioneCELID edizioni

La sfida della formazione oggi: liberare potenziale, sviluppare autoconsapevolezza e pensiero critico

In una società fluida e complessa, dai confini poco prevedibili a lungo termine, la sfida della formazione attuale è quella non tanto di trasmettere contenuti, ma di attrezzare l’essere umano di strumenti di adattamento adeguati al contesto. Già Edgar Morin asseriva che “è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”. E oggi questa affermazione è ancora più valida.

La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità si è raccomandata da tempo di sostenere, fin dalla prima infanzia, una serie di competenze (definite life skills) che rimandano ad abilità trasversali dell’essere umano per affrontare l’ambiente dal punto di vista pragmatico e sociale. Pertanto, non competenze tecniche specifiche, contenuti disciplinari raffinati, ma abilità di vita capaci di sostenere l’uomo nel gestire problemi e situazioni comunemente incontrate nella vita quotidiana. Molte ricerche ci dicono oramai che in futuro sempre più prossimo, le life skills saranno ancora più importanti delle competenze tecniche. Stiamo parlando di abilità come: Consapevolezza di sé, Gestione delle emozioni, Gestione dello stress, Comunicazione efficace, Relazioni efficaci, Empatia, Pensiero Creativo, Pensiero critico, Prendere decisioni, Risolvere problemi. Continua a leggere La sfida della formazione oggi: liberare potenziale, sviluppare autoconsapevolezza e pensiero critico

Il principio dialogico di Buber raccontato dal Piccolo Principe

Il Piccolo Principe è una storia per adulti, nonostante venga generalmente inserita tra le pubblicazioni per l’infanzia. Spesso i bambini ne restano sconcertati perché è un romanzo che parla del disincanto del mondo adulto, attraversato da una profonda desolazione, da una malinconia costante che si chiude con un finale destinato a lasciare un’inevitabile inquietudine (il piccolo protagonista che si dona liberamente alla morte).

E allora, se si tratta di una storia per adulti, possiamo proprio trattarla come tale, approfittando delle sue metafore per parlare di filosofia, in particolare di Buber, del suo principio dialogico e delle ricadute pedagogiche che ne conseguono. Continua a leggere Il principio dialogico di Buber raccontato dal Piccolo Principe

La canzone del mare: cosa può ancora insegnarci l’immaginario fantastico irlandese?

Il film La canzone del mare (2014) è un’incantevole fiaba che recupera l’immaginario fantastico irlandese e lo sviluppa al punto da affrontare questioni evolutive particolarmente attuali, come la rivalità fraterna e la gestione delle emozioni.

Dell’antico immaginario del Nord, ritroviamo innanzitutto le protagoniste femminili: le Selkie, creature mitologiche irlandesi, caratterizzate da una natura duplice. Esse vivono nel mare con aspetto di foche, ma possono rimuovere il manto e assumere aspetto umano sulla terra. La Selkie rappresenta la complessità della natura femminile – metà umana metà creatura magica – ed è il collegamento necessario fra mondo reale e il cosiddetto “altro mondo”. Continua a leggere La canzone del mare: cosa può ancora insegnarci l’immaginario fantastico irlandese?

L’immaginario di Chagall, tra fiaba e arte

Addentrarsi alla scoperta delle opere di Chagall è un’esperienza fiabesca. Non solo per l’impegno diretto dell’artista in questo settore (nel 1927 fu incaricato di illustrare le Favole di La Fontaine), ma per l’immaginario che scaturisce da tutta la sua produzione artistica, in cui si ritrova una compenetrazione di simboli, immagini e icone caratteristici anche del linguaggio fiabesco.

Le tele si popolano di piccoli personaggi (artisti, violinisti, amanti e animali) che si librano su sfondi morbidi e colori palpabili, sospesi in una dimensione onirica, priva di precisi confini temporali. Come nel sogno, nel ricordo e nelle fiabe, non c’è una regola precisa con cui le immagini si presentano: esse sbocciano naturalmente dall’immaginario dell’artista, con la forza evocativa dal linguaggio inconscio e simbolico.

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Rudolf alla ricerca della felicità, una lezione di vita…tra attualità e tradizione

Rudolf alla ricerca della felicità è un film che si allontana dalle rappresentazioni cinematografiche cui siamo abituati e che riflette un modello culturale caratteristico, quello giapponese, con il proprio sistema fondante di valori, il proprio modello di percorso di indipendenza e di ruoli sociali. Il film è infatti basato sul romanzo per bambini più venduto in Giappone.

Il protagonista è Rudolf, un gattino nero, che vive in Giappone con la sua amata padroncina. Un giorno, spinto dal desiderio di esplorare il mondo, salta su un camion e si ritrova, dopo una notte di viaggio, a Tokyio. Nella capitale incontra Tigre, un grande gatto-capo temuto e rispettato da tutti che prende Rudolf sotto la sua protezione. Continua a leggere Rudolf alla ricerca della felicità, una lezione di vita…tra attualità e tradizione

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